PROGETTO MOSAICI. UN INTERVENTO PEDAGOGICO RIVOLTO AI MINORI DELL'IPM MEUCCI DI FIRENZE
di Claudia Durso (Pedagogista)
Che gli Istituti di Pena Minorili – almeno quelli del centro e del nord Italia - siano sempre più caratterizzati dalla presenza di minori di provenienza extracomunitaria o da paesi particolarmente svantaggiati dal punto di vista socio-economico e dunque dal punto di vista culturale è ormai cosa accertata già da qualche anno. Questa particolarità ci obbliga a chiederci se gli strumenti messi in atto per il sostegno psicologico al minore, usualmente utilizzati per i minori italiani , siano allo stesso modo efficaci per minori provenienti da Paesi, il cui aspetto preponderante - scaturigine di malesseri e obbligate “devianze” dal circuito della legalità - sia la impossibilità di accesso alla ricchezza Culturale e Sociale. Cioè , quelle fonti da cui proviene la formazione etica e responsabile dell'essere umano. Sempre più si rende necessaria un'armonia tra i diversi approcci teorici senza presunzione di ritenerne alcuni più importanti di altri, laddove , la considerazione del “minore deviante” non può essere affrontata nei soli termini di problematiche dell'età evolutiva.
E' solo nella considerazione storica dell'individuo che possiamo cogliere la sua “completezza” , il senso del suo agire. Ma non basta la rivisitazione storica, come mero racconto per giungere ad una “rivisitazione” del proprio operato. Il racconto deve trasformarsi in vissuto dell'anima per essere Storia di Senso . Vissuto condiviso, partecipato per identificazione, emozionale, valutato nel mentre viene prodotto. Vissuto rimodellato , all'occorrenza; con tutte le sue necessarie difese e tuttavia capace di trasformare l'immagine interna che attraverso esso si ha della vita. Poi, uscire dalla Storia per tornare al presente. ‘Piedi a terra': quale la visione del mondo ora e quella del domani. Quali risorse ci aspettano , quali possiamo creare. La speranza di poter creare qualcosa dal poco o meglio dal “niente”. Ecco dunque il “Raccontarsi”. Oltre a questo: il bisogno di non sentirsi perduto, di recuperare quei punti di riferimento vitali, capaci di sostenere, in un percorso di nuove realtà – il carcere – e nuove scoperte - se stesso diverso. Soprattutto questo vale per i minori con reati più gravi, con periodi detentivi più lunghi.
Altra questione – da non sottovalutare – è il dopo detenzione. Qualunque sia il lavoro di sostegno, rivisitazione del vissuto o apprendimento della capacità progettuali, il “fuori” rimane l'incognita capace di demolire ogni tentativo di recupero della propria esistenza alle legalità o alla “normalità”. “Normalità” , una parola che ritroviamo nei discorsi dei ragazzi che parlano di sé. Vorrei introdurre il lavoro da me svolto all'interno dell'IPM di Firenze a partire da alcune riflessioni di Hillmann, perché danno un'idea immediata di quello che abbiamo inteso realizzare attraverso il progetto Mosaici: “Il modo in cui raccontiamo la nostra storia è anche il modo in cui diamo forma alla nostra terapia” “…Il modo in cui immaginiamo la nostra vita è anche il modo in cui ci diciamo cosa sta accadendo; è il modo attraverso il quale gli avvenimenti diventano esperienza”. Il progetto Mosaici è stato sostanzialmente un raccontare la propria storia per rivederla in senso critico e riproiettarla verso futuro. Naturalmente, la sola narrazione, il puro e semplice racconto, non basta da sé a fare “anima”. Il raccontare è il racconto dell'esteriorità, materia , indigerita, non elaborata. Questo materiale è racconto fintanto che non sia stato assimilato per diventare esperienza. Il racconto rimane esterno cioè lo guardiamo da fuori ed è chiuso nel suo “letteralismo fattuale”: accade questo e poi quest'altro. Interiore significa invece, che lo stiamo accogliendo, diventaaprte di noi stessi.. “Per diventare “esperienza” la storia /racconto ha bisogno di astrazione e assimilazione di significati”. Questo è in qualche modo, quello che si è tentato di fare attraverso il Progetto Mosaici, avviato nell' anno 2001 in via sperimentale quale intervento pedagogico, rivolto ai minori in stato di detenzione presso l'istituto Penitenziario “Meucci” di Firenze. “ Mosaici”, non nasce ben definito nei suoi tratti sin dall'inizio, nasce piuttosto da un'idea iniziale che abbiamo man mano definito e specificato in base a quanto emergeva dal lavoro con i ragazzi. L'idea iniziale era quella di verificare se fosse possibile un lavoro specifico, di riflessione critica sul vissuto e sull'agito del ragazzo nonché, di presa di responsabilità proiettata verso il futuro. Cioè al momento dell' uscita dal carcere. Obbiettivo alto e, tuttavia, ci si accostava al progetto con molta umiltà, comprendendo sin dall'inizio le difficoltà diverse che avrebbero caratterizzato l'intervento psicopedagogico. Non ultimo il problema del linguaggio, essendo il gruppo formato prevalentemente da ragazzi di provenienza extracomunitaria. Questo obiettivo “alto”, in realtà ha funzionato piuttosto come linea guida nel lavoro che si conduceva, che come pretesa di obbiettivo certo. Iniziammo così l' intervento con l'attivazione di incontri gruppali all'interno dei quali venivano di volta in volta affrontate tematiche che spaziavano dalla storia personale al vissuto “deviante” del ragazzo, fino al momento detentivo presente. Nello specifico il Progetto educativo prevedeva incontri settimanali di tre ore, per affrontare temi legati alla storia e al vissuto affettivo relazionale sociale e emozionale del minore, attraverso l'uso di strumenti “psicopedagogici” specifici, che mediavano e facilitavano la comunicazione e la condivisione di argomenti spesso delicati e difficili da affrontare. Come dicevo,lo scopo è stato soprattutto quello di far emergere una maggiore consapevolezza e una maggiore capacità di giudizio critico circa il proprio agito ma anche una maggiore consapevolezza di sé, o meglio di quella parte di sé che il ‘vivere deviante' spesso accantona, mette in un angolo buio e che a volte preme per uscire e si manifesta nella sua più limpida ‘verità' non appena trova uno spiraglio adeguato, rassicurante. La capacità di giudizio, intesa come riflessione sulla capacità di scegliere gli obbiettivi opportuni e i mezzi adatti e socialmente accettabili per raggiungerli, è legata all'esame della realtà e all'esperienza del ragazzo e, per farla emergere, gli si richiedeva di verbalizzare il suo punto di vista sulle proprie potenzialità e sui propri limiti in un determinato contesto sociale. Si sollecitava il ragazzo a fare dei collegamenti tra la sua condizione attuale e quella futura, si indagava la percezione che aveva delle proprie capacità e si valutava la capacità di stimare il rischio insito in particolari azioni. Altro aspetto è stato quello di mettere il ragazzo a confronto con quanto era riuscito a fare nel passato e a quale rischio o conseguenza. Se le sue strategie sono risultate efficaci e a quale costo. Il Progetto è stato pensato come un “percorso”, che tracciasse la storia del ragazzo nelle sue tappe più significative, per giungere al presente, il momento detentivo, con tutte le sue paure ansie e speranze per il futuro senza pretese di ‘redenzione' o di ‘capire' o di ‘guarire'. Nella assoluta serenità di giudizio da parte degli operatori, un fare e un comunicare per essere, un percorso per ritrovarsi. Così la prima tappa di questo percorso era davvero segnata su una cartina geografica : da dove vengo – dove sono nato – la mia famiglia- il mio paese – il mio lavoro – la mia scuola – i miei amici.... Il viaggio : quando sono partito – come ho deciso di farlo – gli addii – le paure – l'imbarcazione – com'era il mare – il viaggio sul camion... l'approdo, le sensazioni – i rimpianti – la voglia di tornare indietro... I primi contatti : gli amici , la prima casa, il freddo, la fame, il primo lavoro...i primi soldi , le speranze e le illusioni. “La mia vita da clandestino ” l'arresto : quando mi hanno preso – la paura – il carcere – i compagni – i rimpianti – non dormo la notte... il carcere : la solitudine – i pensieri – i ricordi – la nostalgia – la voglia di scappare – la diffidenza – Come mi vedo a trent'anni : guardando in avanti cosa vedo di me. La mia preghiera : “a chi vorresti scrivere e cosa, quando ti senti solo”. Con chi vorresti parlare, chi vorresti vicino. Per poter affrontare questi temi naturalmente, abbiamo avuto bisogno di strumenti pedagogici che favorissero la riflessione e la condivisione e che riducessero al minimo l'alzarsi di barriere difensive o diffidenze. Così, siamo passati dall'uso della cartina geografica al disegno ( della propria casa, dell'imbarcazione ecc..) all'uso delle “carte di Propp” - per far emergere il momento più significativo della propria esperienza -, allo scrivere nella propria lingua – ma solo verso la fine del percorso – una “Preghiera”: 'a chi scriveresti e cosa vorresti dire , quando ti senti solo e non sai con chi parlare. Abbiamo utilizzato anche proiezioni di film con focus sul mito, per affrontare e far emergere il “mito familiare” o culturale, così come la drammatizzazione dei momenti più significativi della loro esperienza in Italia. Abbiamo anche affrontato problemi di carattere sociale: dal lavoro minorile, al perché della fame nei loro Paesi , al ciclo della droga, al ciclo delle armi e dei diamanti. Ci siamo procurati delle foto; immagini dei paesi di provenienza per parlare di come si vive in Marocco , in Albania ecc...foto che hanno stimolato spesso le loro fantasie e “sogni”. Importante è stato il lavorare sul “mito” . “Mito” è parola narrazione – è narrazione religiosa o di gesta e origine di dei e eroi. Credenza che, per l'adesione che suscita, provoca mutamenti nel comportamento di un gruppo, spinto da essa all'azione verso la realizzazione di obiettivi”. Ognuno ha il proprio mito celato. Il mito può non essere rivelato, ma allo stesso modo, agisce, come convinzione profonda che guida all'azione. Svelato il mito, si può comunicare attraverso di esso e costruire una nuova possibile storia. Abbiamo lavorato molto sul mito, anche attraverso la presentazione di immagini di personaggi la cui storia ha lasciato un segno nell'immaginario collettivo e nella storia sociale; di alcuni dei quali abbiamo visto dei film: Mandela, Malcom X , Hurricane... Ancora , riferendosi a Hillmann: “Per poter vivere occorrono Immagini”. La nostra vita è prima di tutto la nostra immagine di essa. Per capire dove va la nostra vita dobbiamo interrogarci su questa immagine. Quando non “vediamo” immagini, siamo disorientati. Per cambiare vita , abbiamo quindi bisogno di cambiare l'immagine che abbiamo di essa. Così in un percorso in cui la comunicazione è stata particolarmente difficile e, in alcuni momenti , sofferta, l'immagine è stata un mezzo “speciale” per tradurre sentimenti, stati d'animo,problemi, e nostalgie, ma anche condivisione: ‘come io mi vedo ora e fra dieci anni'. Immagine non solo vista su uno schermo ma anche creata, disegnata, rappresentata con i colori/emozione , come quando veniva disegnato il percorso fatto per raggiungere l'Italia e poi Firenze. Ogni tappa, ogni nome di città, un colore per indicare lo stato d'animo di quel periodo vissuto per lo più in clandestinità. E ancora, la vita come immagine di luogo, nelle parole dei ragazzi: un abisso senza fondo, una montagna russa, un campo di battaglia, una trappola, un labirinto, un ruscello in secca, un ingorgo ma anche un lunapark, un albergo a cinque stelle e per finire un mare in tempesta. Immagine come rappresentazione. Un biglietto tirato a sorte , con su scritto un momento importante per la propria vita: l'arrivo in Italia, il centro di prima accoglienza e la fuga. Il racconto del barcone che rischiava di frantumarsi e poi il salvataggio. Qualcuno, pur nella rappresentazione non ha voluto entrare nel centro di Prima accoglienza definito prigione ed è uscito dalla scena. Infine il racconto che si fa significato: la scelta , fra tante, di una delle carte di Propp; quella che più rappresentasse la propria vita: il racconto - per sbaglio , non voluto - di un reato sempre negato ma che pesa nel cuore , in quel momento., la consapevolezza di un momento di debolezza e la richiesta di un giuramento di mantenere il segreto. E ancora, l'immagine di un salvataggio: “Potevo lasciarlo affogare, la polizia ci inseguiva e il mare era in tempesta e, invece l'ho ripreso ‘per i capelli'. Se sapessero che cosa ho fatto non sarei qui per droga”!. Vent'anni e già un ‘corriere' di clandestini, 500 euro a persona. Ma anche il racconto–paura, di chi in quell'acqua ci stava per cadere. Alla fine tutti ritornano alle proprie mansioni, spesso è l'ora di pranzo, ma qualcuno ti ferma sulla porta e ti chiede se puoi fare qualcosa per lui o come sta suo fratello che sta in un altro carcere. C'è bisogno di parlare ad orecchie attente , rispettose, che sono dentro il carcere ma anche non hanno niente a che fare con la giustizia. Non sono giudici e non pretendono di guarirti o di carpire segreti da rivelare. Qualcun altro ti consegna una lettera chiusa “ da non far leggere a nessuno”. E' la “preghiera che vorresti scrivere quando rimani solo nella tua stanza e non hai nessuno con cui parlare”. Consegnata con l'imbarazzo che certi sentimenti non vanno raccontati nemmeno ai compagni di cella. Un bisogno di riconoscimento per come ci si sente davvero , come si è davvero, oltre l'immagine che tutti hanno e che anche “tu “ hai di te “delinquente”. A volte li confondi con gli adulti, sembrano spregiudicati, sufficientemente distaccati da commettere reati anche non ‘lievi' , qualcuno non è proprio minorenne, lo vedi bene - ma questo è un altro problema. Altre volte ti sembrano ragazzi , per quello che sono. Altri, in certi momenti hanno scritto alla propria madre – di perdonarli – o al proprio fratello di non abbandonare la scuola, perché è molto importante, seguito da un “ inshallaha – se Dio vuole, ci vediamo presto” |